Exciting, fluid, functional.This is the language that distinguishes Marco Piva’s architectural creations, product design and interior design. The effort in material research and technology, the value of differentiation,the design innovation, lead the establishment of Studiodada Associates, whose production becomes one of the most representative of the period of Radical Design. In the ’80s opens Studio Marco Piva, whose work ranges from large projects to architectural interior design, to industrial design. A traveller and a designer, an innovator who is educated in rational approaches, Marco Piva studies and creates design solutions which are pervaded by stylistic freedom and compositional sobriety
Architetto Piva come ha cominciato?
“Tutto nasce dall’idea di creare spazi, scenari. Qualsiasi sia poi l’applicazione e la destinazione, a me piace creare volumi, fino agli oggetti che poi animano questi spazi. Il mio interesse è trasversale a tutte queste discipline: dall’architettura al design, all’interior design, all’oggettistica. In tempi recenti sono anche passato a scale più grandi, come masterplan, urbanistica e progetti di territorio su cui poi le architetture vengono inserite”.
Dal cucchiaio alla città, si sente dire…
“Precisamente! La mia, in sostanza, è un’attività di costruzione di rapporti, sintesi e confronto fra varie aree della sperimentazione, per esprimere e dire cose nuove”.
Come si inserisce il tema dell’albergo in questi suoi interessi poliedrici?
“Mi è sempre piaciuto viaggiare, e il tema del viaggio è sempre stato per me importante. Così è stato quasi automatico intervenire su realtà che in qualche modo “contengono” un viaggio, lo accompagnano e lo determinano. Ecco gli alberghi, con tutte le possibili destinazioni, dal business alla vacanza”.
Arch. Piva da quando si occupa anche di alberghi?
“Dagli inizi degli anni Novanta, quando mi è parso di capire che l’albergo non poteva più essere un luogo falso e fuori dal tempo e dallo spazio, ma un posto da vivere e possedere realmente”.
E da lì?
“Da lì ho cominciato a lavorare sul tema dell’innovazione: avvicinare l’albergo agli spazi domestici, differenziare gli ambienti tra ruolo e ruolo, fare ricerca sui materiali e sulle emozioni”.
Emozioni?
“Il viaggio è sorpresa e emozione. Perché mai l’albergo non dovrebbe contenere emozioni come valore aggiunto?”
Quindi secondo lei Arch. Piva, un buon albergo cosa dovrebbe fare?
“Creare un’emozione all’interno dell’emozione del viaggio: accogliere il visitatore con luoghi che sappiano raccontargli cose di volta in volta diverse”.
Che rapporto c’è, per lei, fra forma e funzione?
“Un rapporto inscindibile, fortissimo, di continuo incontro, scontro, dialogo. Il punto di equilibrio fra funzione ed estetica è variabile, di volta in volta da scoprire, e proprio lì è l’essenza del progetto. Posso forzare da una parte o dall’altra a seconda delle mie necessità comunicative. In ogni caso più il punto di equilibrio è centrato, più il mio progetto avrà successo”.
La forma è portatrice di significato?
“Senza dubbio. La forma è portatrice del significato funzionale perché trasmette la funzione. La forma è la mediazione fra la funzione e l’utilizzatore e il percettore. La forma è il racconto, è l’emozione che si aggiunge alla funzione”.
Arch. Piva, ricorda un progetto che le ha dato particolare soddisfazione, proprio perché è riuscito a dire quello che voleva?
“Ricordo, a Milano, la ricerca sulla “Camera Interattiva”, che mi ha dato particolare soddisfazione sul versante della sperimentazione proprio perché si ipotizzava un ambiente articolato che rappresentava vari momenti funzionali di un’area ricettiva visti in termini di capacità di trasformazione e di interazione con l’utilizzatore. Mi è piaciuta l’idea di creare uno spazio in cui l’utilizzatore avesse un ruolo attivo anche nel modificare gli spazi. Questo è legato anche al fatto che i visitatori sono molto diversi fra loro: disegnare un contenitore polimorfico e “trasformista” significa anche rispondere al meglio alle esigenze di chi frequenta l’hotel”.
Se le dico innovazione, cosa risponde?
“E’ il mio termine preferito. L’innovazione è l’indagine che faccio costantemente sul luogo in cui intervengo, sulla storia, sulla narrazione, sulla materia, sullo spazio, sulla luce. Tutto ciò lo rielaboro in un cocktail nuovo che ti dà un prodotto “altro”, diverso da quella che potrebbe essere una risposta tradizionale, banale, non indagata”.
Cos’è per lei progettare un albergo?
“E’ costruire una scenografia e un canovaccio teatrale da mettere in scena. Con tanto di personaggi che animano questa scena. Indispensabile l’elasticità interpretativa, che consente agli attori di “recitare” al meglio la loro parte. L’hotel è l’elemento di transizione dal luogo da cui proviene il cliente al luogo in cui viene accolto. E’ una sorta di interfaccia”.
Letto e tv: un asse che si può scardinare?
“Il problema è avere la possibilità di lavorare sull’architettura. Se c’è questa possibilità, con una discreta libertà, si possono ottenere spazi di libertà in cui è possibile disarticolare una struttura ormai congelata, soprattutto nelle camere, e creare spazi più dinamici e aperti, altri “modi” di frequentare questi ambienti. La tecnologia ci deve essere ma non deve essere invasiva, preponderante”.
Per lei Arch. Piva, il target viene determinato dal progetto?
“Va costruito insieme alla committenza, fianco a fianco”.
Lei quando viaggia, che albergo vuol trovare?
“Un albergo che mi sorprenda, che sia diverso da quello che disegnerei io”.
Su cento alberghi, quanti la sorprendono?
“Pochi. Troppo pochi. Non sono molti gli alberghi che hanno caratteri di forte attrazione e memorizzazione della loro essenza”.
Oltre a sorprendere, il suo albergo ideale come deve essere?
“Gli alberghi devono essere memorabili, luoghi particolari inseriti in un tessuto urbano ”.
La affascina la moda?
“Mi attrae moltissimo. Mi sarebbe piaciuto molto disegnare anche gli abiti di chi opera negli alberghi. La moda è il vestito dell’attore. Quanto ai viaggi, mi piace anche il momento della selezione degli abiti per la valigia, perché sono appunto i costumi dell’attore, quelli che ti rappresentano. Sono l’interfaccia su cui dovrai contare nelle diverse situazioni”.
Negli anni Ottanta Egon Von Furstenberg ha dedicato un intero capitolo del suo libro “Il vero signore si veste” proprio al corredo indispensabile da portare in viaggio, per non sfigurare in nessuna circostanza. Qual è il suo?
“Partirei dal costume da bagno, che io porto sempre ovunque vado, perché arriva sempre un momento di relax e di contatto con l’acqua. Poi, ovvio, la macchina fotografica e qualcosa che sia abbastanza mimetico da non farti sembrare uno straniero nel luogo in cui vai. Io cammino moltissimo e mi piace capire il luogo in cui vado: sentire i rumori, gli odori, le voci, vedere i volti. Poi porto sempre un set per “l’evento”: presentazioni, prime, party…capita sempre di incapparci e non puoi non avere l’abito adatto”.
Lei ama Pirandello?
“Lo amo molto, naturalmente il teatro soprattutto. Amo i tempi sospesi, amo gli spazi in cui si muovono i personaggi. Che poi siamo noi”.
Albergo e casa.
“Sto lavorando moltissimo su questa fusione. L’idea è quella di trasportare nel campo abitativo l’esperienza maturata nel settore della ricettività, dove c’è la necessità assoluta e primaria di soddisfare l’ospite. Sto cercando di trasportare nel settore residenziale ciò che è stato pensato in albergo. Ma prima ho trasportato molta casa nell’albergo, soprattutto gli spazi privati: camere che in qualche misura, anche se per una sola notte, possano essere vissute e possedute: spazi dilatati, materia che puoi toccare, luci che ti si vestono addosso”
Luci e materiali, appunto. Arch. Piva come li interpreta in un progetto alberghiero?
“Sono molto importanti. Per i materiali, ad esempio, io gioco molto sui contrasti: materiali naturali come il legno e materiali di sintesi come il vetro, anche cromatizzato, materiali della contemporaneità come la plastica con materiali della storia come la pietra. Mi piace tutto ciò che crea confronto, tensione, fascinazione. E su questo la luce deve giocare un ruolo magico. Io, ad esempio, lavoro moltissimo alla progettazione degli scenari di luce che accolgono il cliente quando entra nelle mie camere”.
La luce quindi ha un ruolo importante…
“Essenziale. Qualcuno dice che la luce deve essere come il cemento in un progetto. Secondo me la luce è piuttosto l’anima del progetto. Deve far risaltare le superfici, trasmettere l’emozione principale, che è quella della vista, prima ancora di arrivare al tatto”.
Voi seguite l’intero progetto, compreso l’interior design?
“Lo preferiamo. Quando la committenza ce ne dà la possibilità seguiamo tutto”.
Architetto Piva lei ha colori preferiti per gli interni camera?
“In questo periodo sto lavorando molto sul bianco, per un motivo molto semplice. Credo che sia arrivato il momento di fare pulizia, mentale ed estetica, e sul bianco, come su un foglio di carta, riesci a costruire qualsiasi nuovo rapporto tonale o cromatico, tra superficie e luce. I colori comunque fanno parte della mia storia: ho realizzato alberghi che sono come vetrine aperte verso la città, piene di colori”.
Segue precise teorie?
“Conosco la teoria del colore, come tutti, ma poi l’applicazione è sempre legata alle condizioni, alle situazioni e alla mia sensibilità. Il colore è poi legato fortemente alla materia, ed i luoghi ti impongono certe scelte di materiali, quindi di composizione e di colore”.
A un certo punto lei ha ricordato l’esigenza di ricominciare. Cosa intende?
“Ormai siamo arrivati a una soglia che tutti dobbiamo oltrepassare. Nessuno si può più tirare indietro in merito a concetti come la sostenibilità, ma anche la sobrietà e la semplicità. Ecco, ricominciare significa rivedere tutta una serie di tracce di lavoro, di ipotesi di lavoro. Vorrei dare emozioni sincere e pulite, semplificare senza togliere emozione”.
Suggestioni minimaliste?
“No, no…il minimal mi appare come una povertà imposta, una sorta di autocastigazione. Io voglio ricercare il piacere dell’eleganza, della classe. Mi sembra in linea con lo spirito dei tempi. In questo senso sto studiando l’uso del bianco, ma anche, ad esempio, le trasparenze calibrate”.
Arch. Piva, ritiene che anche l’albergo possa essere progettato secondo i criteri della sostenibilità?
“Assolutamente sì. Su questo tema sono impegnato nel campo residenziale, ma ho un esempio illuminante anche per gli alberghi. Sto curando la ristrutturazione dell’Excelsior Gallia, uno degli alberghi storici di Milano, a due passi della Stazione Centrale. Stiamo lavorando al recupero e all’ampliamento mediante una struttura leggera, diafana, che faccia parte della scena urbana e che possa al meglio rispondere all’esigenza della sostenibilità energetica”.
Parliamo di fotovoltaico: crede che possa diventare un linguaggio espressivo?
“Già di fatto ci si sta lavorando, ad esempio dissimulando il fotovoltaico all’interno delle facciate, o facendolo diventare quasi una “pelle sensibile” dell’edificio, che consente a quest’ultimo di vivere integrando le sue esigenze di energia. Adesso ci sono una serie di progetti dichiarati sostenibili. A me interessa l’integrazione di una serie di elementi: dal solare termico al fotovoltaico. C’è un discorso in atto, e siamo solo all’inizio”.
Torniamo in camera. L’albergo deve cambiare?
“Assolutamente sì, soprattutto nelle camere. Mi piace pensare a qualcosa di dinamico, in cui l’ospite abbia un ruolo. A me piace che la camera non sia mai uguale a se stessa, che contenga elementi da scoprire di volta in volta. Arrivo un giorno in una camera e ci trovo un oggetto di design. Un mese dopo torno e scopro un oggetto di moda o d’arte. L’arte poi è importante: non ho mai messo un elemento di finta arte in nessuno dei miei alberghi: mai una stampa, mai una copia, ma vere opere d’arte. Tutto questo ha una sua coerenza se lei pensa che io vedo l’albergo come un tramite col luogo di appartenenza. E ciò vale soprattutto in Italia, dove abbiamo la più alta concentrazione al mondo di arte sul territorio. Ho creato alberghi che sono delle vere e proprie gallerie espositive dinamiche”.
Ci fa qualche esempio Arch. Piva?
“Il THotel davanti al Teatro Lirico di Cagliari è stato progettato in modo che gli spazi comuni fossero luoghi dove poter raccontare l’arte, dove i giovani artisti sardi potessero esporre non nel formalismo di una galleria, ma in uno spazio dinamico e condiviso. Questo hotel, che è davanti al Teatro, ospita nella hall un’esposizione di costumi di scena, che avvicinano l’ospite allo spirito nobile della città”.
Un albergo perfettamente integrato nella città, quindi.
“Le dirò di più. Io sto riflettendo molto sull’attacco al suolo di questi edifici. Sul dove questi edifici innestano le proprie radici nel territorio. Ecco, il mio desiderio è di aprire tutti questi spazi. L’attacco a terra va studiato in modo che non sia solo dell’hotel, ma diventi territorio della città, diventando proprio un’interfaccia di interazione fra l’albergo e il tessuto urbano. La gente deve poter entrare, a Cagliari la hall appartiene quasi più alla città che all’albergo: c’è chi la utilizza per una colazione di lavoro, chi va a rilassarsi, a leggere il giornale, a fare un acquisto, il caffè o il the delle cinque. Tutto questo, ovvio, salvaguardando la privacy dei clienti dell’hotel”.
Questo dai clienti non è visto con un po’ di diffidenza?
“Assolutamente no. E’ chiaro che poi il cliente avrà luoghi esclusivi e riservati. Ma con un’intelligente gestione degli afflussi è possibile creare un’osmosi col territorio. Questo è determinante. Pensiamo alla storia: gli alberghi erano le porte d’ingresso alle città, tra i pochi luoghi dove si poteva avere un’interazione tra ospite e territorio, si parlavano le lingue straniere, il visitatore prendeva informazioni…insomma, accessi alla cultura e alla realtà di un luogo. Un ruolo che per me dev’essere ancora vivo e salvaguardato”.